“La traviata” è una di quelle opere che stanno perennemente in cima alle classifiche degli spettacoli più rappresentati nei teatri lirici del mondo. Classifiche che gli esaltatori del made in Italy puntualmente sfoderano quando vogliono spiegarci la ricetta per risollevare l’economia e l’immagine del nostro Paese in quattro semplici mosse. Ad ogni modo è vero che, ai bei tempi in cui si poteva andare nelle sale, si calcolava che il dramma di Violetta andasse in scena ogni santo giorno in almeno due o tre parti del globo. È difficile dunque dire qualcosa di nuovo curando l’allestimento di questo titolo che rappresenta una delle vette della drammaturgia (non solo della musica) di Giuseppe Verdi. Per dire, è l’opera con cui io ho scoperto l’opera.
Dopo il “Barbiere”, Mario Martone ha messo in scena l’opera di Verdi con un’operazione che convince solo per due terzi
Ci ha recentemente provato il regista Mario Martone, con uno spettacolo registrato nel febbraio 2021 e trasmesso venerdì scorso in prima serata su Rai Tre. È riuscito nell’impresa? La mia risposta è: un no e due sì. Nel senso che “La traviata” si sviluppa in tre atti, il primo dei quali non mi è sembrato particolarmente efficace. Stavo quasi per spegnere la tv, ma qualcosa mi ha trattenuto. Fortunatamente, perché nelle due parti seguenti si è visto qualcosa che meritava la prima serata su una rete nazionale o, ai bei tempi, un biglietto per l’Opera di Roma, il teatro che ha allestito lo spettacolo affidando la direzione musicale a Daniele Gatti.

Martone curò anche quel “Barbiere di Siviglia” di cui vi ho parlato nel dicembre scorso, prima opera messa in scena a Roma con questa nuova formula pensata per ovviare alla chiusura del teatro cercando di continuare a intrattenere il pubblico tradizionale e quelli nuovi, raggiunti tramite internet e tv. Se all’epoca il gioco del teatro nel teatro era stata la chiave del successo e cioè i cantanti che recitavano nei palchi, in platea, nel foyer (e a volte anche sul palcoscenico) erano stati la chiave per capovolgere il teatro perché il teatro sopravvivesse, ora lo stesso gioco non solo sembra ripetitivo, ma in un dramma qual è “La traviata”, carico di sventura fin dalle prime strazianti note, pare anche che funzioni di meno.
la lotta tra spontaneità e convenzioni raggiunge il culmine con un atto che lascia gli interpreti in un teatro nudo
Nel secondo atto invece vediamo sul palcoscenico dei finti fondali naturali che papà Germont (interpretato da Roberto Frontali) strappa quando riesce a convincere Violetta (Lisette Oropesa) a rinunciare a quella vita traballante ma serena che lei era faticosamente riuscita a costruire con l’amato Alfredo (Saimir Pirgu), il candido figlio di Germont che con la sua ingenuità e la sua spontaneità era riuscito a strappare questa “pretty woman” dall’artificiosa vita che conduceva nella Parigi di metà ‘800. Ma la gente continua a mormorare e quel tale che doveva sposare l’altra figlia di Germont si sta tirando indietro. Non sia mai che un gentiluomo diventi cognato di una donna dai chiacchierati trascorsi. E così, dopo uno dei duetti più belli ed estenuanti della storia dell’opera, il teatro rimane nudo. Via i leggiadri scenari naturali. Papà Germont con le sue nenie ha convinto Violetta, la quale indossa il cappotto che lui aveva posato sul letto. Cappotto che nello spettacolo di Martone è assunto come simbolo della vita dissoluta, per via della noncuranza con cui gli uomini lo lanciano sul letto per abbandonarsi ai piaceri più sfrenati.
il cappotto, lanciato dagli uomini per abbandonarsi al piacere, diventa oggetto simbolo dello spettacolo
Nell’ultimo atto Violetta è ormai agonizzante, dietro un sipario chiuso. Il teatro è la casa degli attori, ma in questi tempi in cui i sipari sono irrimediabilmente abbassati ne è diventata anche un po’ la prigione. A questo punto, Violetta che si aggira tra foyer e ridotti come nel primo atto, ci fa provare tutto il suo dolore nel guardare dalla finestra: il corteo del carnevale passa proprio mentre lei sta vivendo le ultime ore concessele dalla tisi.
Lorenzo Crola
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Scusa, di-vago: ricordo quando nel 1975 (ero a Londra con una mia amica, ospiti paganti di una vecchia signora che ci dava lezioni di inglese) e una sera andammo a teatro a vedere The Rocky Horror Picture Show. Mentre aspettavamo che lo spettacolo iniziasse, tutti gli attori fecero irruzione nella platea, dall’ingresso alle nostre spalle, e si sparpagliarono in giro facendo strani versi (immagino tipo… “Bu!”) che spaventarono tutti gli spettatori prendendoli alla sprovvista. Tutti ci mettemmo un po’ a capire questo “assaggio” di teatro nel teatro. Noi eravamo anche molto giovani e non abituate a esperimenti del genere. Poi, vabbè, vicino a noi c’erano due ragazzi italiani più grandi che ci invitarono a cena fuori un’altra sera e alla fine dissero che non avevano soldi per pagare il conto, così fummo turlupinate alla grande…
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Ahahah, Londra pullulava già di italiani… comunque grazie per aver raccontato del “Rocky horror” perché è un caso interessante da confrontare. Là era pensato per smuovere una platea di pubblico presente, in questa “Traviata” tutto è pensato per la tv, ma sono entrambi modi di ripensare il teatro smuovendo appunto le convenzioni. Riproporre sempre lo stesso allestimento, le stesse regie è un modo sicuro per far morire il teatro.
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