Abbiamo bisogno di qualcuno che ci renda folli, anche solo rubandoci del legname?

Le 450 pagine sono fluite come un impetuoso torrente di montagna, in meno di una settimana di quest’arida estate.

“Il duca” di Matteo Melchiorre ha iniziato a incuriosirmi per via di una “non-recensione” di Marcello Fois su “Tuttolibri” della “Stampa” (uso ancora gli inserti librari/culturali per scoprire le più accattivanti novità letterarie: ho già raccontato la mia passione per la “Domenica” del “Sole 24 Ore” nell’articolo sulle “Sette brevi lezioni di fisca” di Carlo Rovelli).  

LA “NON-RECENSIONE” DI MARCELLO FOIS SU “TUTTOLIBRI” DEL 9 LUGLIO 2022.
L’ARTICOLO È SOPRATTUTTO UNA RISPOSTA A CHI HA DEFINITO «UN UNICUM» IL ROMANZO DI MELCHIORRE PUNTANDO «SULLO STRAORDINARIO E SULLO SPOT»

Quando ho trovato “Il duca” tra le novità Einaudi in libreria, pur trovandomi già impegnato in molti propositi estivi di lettura, non  ho potuto resistere all’impulso di acquistarlo.

E lui si è impossessato di me, finché non l’ho finito.

A monopolizzare l’attenzione è proprio il nobile da cui il romanzo prende il titolo, ultimo esponente di una temuta dinastia comitale, popolarmente assurta al rango ducale.

IL DUCA CHE DÀ IL TITOLO AL ROMANZO È UNA MELA SOLITARIA SU UN ALBERO «LA CUI LINFA SI È DEL TUTTO ESAURITA». EPPURE UN PRESUNTO FURTO DI LAGNAME RISVEGLIERÀ ANTICHI E INASPETTATI ISTINTI

Questa mela solitaria «sul ramo di un albero secolare la cui linfa si è del tutto esaurita» ha per regno villa Cimamonte, «inutile monumento di epoche sepolte» nell’amena Vallorgàna, piccola località montana in via di spopolamento.

Melchiorre disegna il paesaggio con tratto preciso e indefinito. Fin dalle prime pagine gli elementi naturali si delineano nella nostra immaginazione, ma al tempo stesso si apre una piccola sfida con l’autore per cercare di capire dove la sua mente abbia collocato queste località dai nomi immaginari.

Ci muoviamo tra monti, strade, a volte città, ma soprattutto nel bosco. Il bosco pronto a sostituirsi a un’umanità che sta abbandonando la vita in quota, come una sorta di «lava verde, viscosa e mortifera, destinata prima o poi a sommergere ogni cosa».

E così si pone il primo degli scomodi (ma attuali) interrogativi lanciati dal romanzo. Nelle comunità montane la natura che si riprende ciò che era suo può essere vista come una minaccia. Ciò significa che l’ambientalismo può avere dei limiti, posti dalle necessità e dalle attività umane?

IN UN PAESAGGIO PRECISO E INDEFINITO, LA COMUNITÀ DI VALLORGÀNA È UN BALUARDO CONTRO L’AVANZATA DEL BOSCO. IL CHE PONE DEGLI INTERROGATIVI SUI LIMITI DELL’AMBIENTALISMO

Ma c’è di peggio, o meglio di più complesso, su cui riflettere.

I personaggi sono così sottilmente dipinti nella loro interiorità (mantenendo anche qui pennellate non troppo definite: del protagonista non sappiamo nemmeno il nome) che è impossibile non sentirsi nei loro panni, non condividere le posizioni e i sentimenti, anche i peggiori. 

Così, pagina dopo pagina, scopriamo con imbarazzo che è impossibile non condividere certe risoluzioni (non sempre encomiabili) del protagonista, ispirate dall’emergere di un «pessimo istinto da padrone» quando si tratta di impuntarsi per una faccenda di presunto furto di legname.

LO SCAVO NEI PERSONAGGI È TALMENTE PROFONDO CHE NON RIUSCIAMO A NON IDENTIFICARCI IN LORO, ANCHE NEI MOMENTI PIÙ BASSI

Se viviamo con il duca i suoi sbalzi di umore e l’evoluzione delle sue intenzioni è grazie alla capacità di Matteo Melchiorre di materializzare il carattere dei personaggi, farceli immaginare nelle loro bassezze e ruvidità, come nel caso dell’antagonista, Mario Fastréda, un uomo che incontriamo per la prima volta al bar mentre sfoglia il giornale «con una grandiosità episcopale». E in quattro parole è già quasi delineato il tipo.

È proprio con Fastréda, «espertissimo a manovrare gli altrui sentimenti», che si apre la disputa sul legname che innerverà/innervosirà tutto il romanzo, apertosi con la descrizione di una lotta fra volatili che faceva pensare a una storia pacata, decadente e descrittiva.

Invece no. Arriva Fastréda, «capace come nient’altro di riempirmi di diavoli. Fastréda mi rendeva folle».

Così per tutto il libro cerchiamo di capire se per caso abbiamo tutti bisogno di una presenza così nella nostra vita.

Ci può essere d’aiuto qualcuno che ci smuova brutalmente dal torpore, dall’eremitaggio e dall’inerzia per condurci (suo malgrado) a capire meglio noi stessi e magari persino ad approdare a un nuovo equilibrio?

Mentre l’autore scava nei personaggi, il suo innominato protagonista si fa paleografo per scavare nell’archivio di famiglia, ma anche questa non sarà un’innocua ricerca sui propri avi.

Anzi, il duca finirà per essere intossicato da quelle carte, che lo porteranno anche a commettere una «straordinaria sciocchezza» (notare l’ossimorico accostamento di aggettivo e sostantivo, laddove un qualunque autore in cerca di “realismo linguistico” avrebbe usato cazzata).

Melchiorre riesce anche a riaprire e attualizzare un dibattito che ha attraversato i secoli ma sembrava oggi spento, quello della nobiltà d’animo/di sangue.

Se si tratta di difendere il legname dei Cimamonte, assistiamo al riemergere di antichi sentimenti padronali (feudali?) che portano il duca a confessare: «Mi sento nobile, e non perché ritenga di avere un animo nobile, ma per via di qualcosa che se non è il sangue è qualcosa di molto simile a esso, qualcosa che scorre dentro la mia persona e che in questi ultimi tempi, mio malgrado, scalpita e smania come non mai».

Chissà che in questo modo lo storico Melchiorre non ci faccia intravvedere come potessero svilupparsi sentimenti di questo tipo nel passato, quando nobili e potenti si sentivano qualcosa di diverso dalla plebe.  

Lorenzo Crola

_ QUIZ _

Vi ricordate in quale altro articolo vi ho parlato di un romanzo il cui protagonista non viene mai citato per nome? Qui la soluzione.

_ Glossarietto per leggere “Il duca” _

BOCIA è uno degli indizi che, ingaggiando la sfida con l’autore di cui ho parlato nell’articolo, mi hanno portato a collocare Vallorgàna nel Nord-Est d’Italia (oltre al fatto che il territorio è caratterizzato da foibe e dalla presenza delle foreste da cui si ricava il legno per i violini). Matteo Melchiorre parla del  «bòcia della Miranda»per indicare il nipote di quest’ultima, mandato alla ricerca di funghi. Bocia quindi vale ragazzino, bambino o in generale l’individuo più giovane in una famiglia o in gruppo sociale, specialmente una recluta nel corpo degli Alpini (chi a scuola non ha mai chiamato bocia i “primini”?). I dizionari confermano: voce dialettale/veneta, di etimologia incerta. C’è chi lo collega a boccia (nel senso di testa), chi all’espressione francese téte  de  boche (testa dura, di legno) diffusasi proprio in guerra, nel primo conflitto mondiale. E nel 1919 si ha la prima attestazione scritta di bocia nelle opere del poeta Piero Jahier.

CAVARSI UNA SPIZZA questa espressione viene usata da Matteo Melchiorre quando il duca si offre di finanziare la costruzione di una strada e il suo rivale Mario Fastréda interpreta questa mossa come un affronto, un modo per togliersi una soddisfazione nella loro interminabile lotta personale. Non ho trovato questo termine sui miei dizionari, tuttavia una semplice ricerca su internet mi ha fatto scoprire il “gorizionario”, dove ho trovato spiza (con una sola z invero) come equivalente di prurito (il che spiegherebbe bene l’espressione togliersi una spizza e poi il dialetto di Gorizia ci riporta nell’area linguistica del Nord-Est d’Italia, perfetto!).

TIRARE GIÙ DALLE SPESE è un’espressione popolare che vale, un po’ cinicamente, uccidere (una persona morta non costa più nulla…) o allontanare/licenziare una persona. Si usa anche per gli animali che si decide di abbattere: nel romanzo “Il duca” la troviamo quando a Vallorgàna si apre un dibattito da bar sulla necessità di «tirare tutti i lupi già dalle spese», al ricomparire di questa specie in paese.  

Dizionari consultati:

Zingarelli

● Deli

● Battaglia

https://dizionari.corriere.it/dizionario-modi-di-dire/S/spesa.shtml

https://gorizionario.wordpress.com/dizionario-lettera-s/

19 pensieri riguardo “Abbiamo bisogno di qualcuno che ci renda folli, anche solo rubandoci del legname?

  1. Credo sia possibile, ma non è il mio caso, che la vita di qualcuno acquisti significato proprio perché esiste un antagonista, qualcuno che desta gli spiriti interiori della persona. Può trattarsi di un essere umano, di una mèta da raggiungere, di una sfida contro la natura. Una motivazione talmente forte, da scuotere la vita di una persona.

    Credo tuttavia che questo possa accadere solo a *certe* persone, magari solitarie, o molto ricche da non avere obblighi lavorativi, o stanche e deluse dal mondo e dalle persone.

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    1. Io credo che tutti abbiamo bisogno di una forte motivazione, di una meta da raggiungere, di nuove sfide (che sono poi forse modi diversi di chiamare la stessa cosa). Detto questo, la motivazione non comporta necessariamente l’avere un nemico, lo stimolo può anche essere costituito da qualcosa di meno ostile.
      La situazione di ricchezza e mancanza di obblighi lavorativi è proprio quella da cui parte il romanzo (ed è naturale pensare ai casi di giovani e fortunati eredieriti andati incontro a un’esistenza tormentata)

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