La precettoria degli animali

Anche se le cascine annesse al complesso monastico sono ormai in disarmo, ancora si avverte che a Ranverso gli animali sono stati di casa. 

Siamo in una precettoria, cioè una fondazione dipendente dalla casa madre, l’abbazia francese di S. Antonio Abate a La Motte St-Didier.

Tra Torino e la Valsusa, dove scorreva il “rivo inverso”, i monaci antoniani trovarono un luogo adatto per installarsi, accanto a una via di comunicazione proiettata verso il valico del Moncenisio (ancora oggi, d’altra parte, associamo immediatamente la Valsusa al tema trasporti).

IL FASCINO DI UNA GRANDE ABBAZIA IN UN ESIGUO COMPLESSO COMPRENDENTE CASCINE E OSPEDALE. IL LEGAME TRA QUESTE STRUTTURE È IL TANTO BISTRATTATO MAIALE

Sono particolarmente legato alla precettoria di Ranverso, che nelle sue esigue dimensioni emana tutto il fascino di una grande abbazia medievale. L’ho visitata nell’estate 2020, quando finalmente abbiamo ripreso a muoverci dopo la reclusione pandemica.

Le suggestioni lasciate dalle sue navate, dal poetico uso del cotto e dai suoi raffinati affreschi hanno certamente influito sulla decisione, arrivata di lì a poco, di creare il blog phileasfogg2020.com per raccontare speciali esperienze di viaggio.

Avevo già visitato Ranverso qualche anno addietro e in entrambe le occasioni ho avvertito la stessa magia, la stessa sensazione di pace e tranquillità che forse è anche un segnale della scarsa conoscenza del luogo.

Temo che i tesori storico-artistici qui racchiusi non siano ancora abbastanza noti.

Dal XI o dal XII secolo A Ranverso si curavano gli ammalati in un ospedale di cui oggi rimane una maestosa ed elegante facciata caratterizzata da un’ardita ghimberga (quel tipo di timpano gotico che da queste parti si innalza sui portali come una fiamma).  

La chiesa della precettoria risulta terminata a inizio ‘200, con rimaneggiamenti quattrocenteschi. In questi secoli le varie campagne decorative l’hanno resa uno scrigno di opere d’arte.

I monaci antoniani erano dediti in particolare alla cura dei mali noti proprio come “fuoco di Sant’Antonio”, applicando il grasso di maiale su piaghe e ferite.

Qui il porco era dunque di casa e lo avvistiamo ai piedi della statua del Santo, appena entriamo.

ANCHE AQUILE, LEONI E BUOI QUI SONO DI CASA. ANZI LO SONO SEMPRE NELLE CHIESE, COME SIMBOLI DEI PIÙ IMPORTANTI CONCETTI DELLA FEDE CRISTIANA

Il maiale è forse il massimo esempio di creatura tanto utile all’uomo quanto da esso disprezzata. Dal mito di Circe in poi.

Ed è la prima di cui vi parlo in questo articolo che apre una serie di tre approfondimenti intorno al recente evento “Sulle orme degli animali dipinti”, in occasione del quale ho avuto il piacere di incontrare il pubblico di phileasfogg2020.com

Troviamo quadrupedi e volatili anche su due volte della chiesa, chiamati a rappresentare nientemeno che Vangeli ed evangelisti.

Nella fede cristiana i concetti chiave sono rappresentati proprio da animali, forse per l’immediatezza con cui essi ci parlano, pur sprovvisti di parola.

Partiamo dal più famoso: il leone di San Marco, scelto forse perché la narrazione della vita di Cristo attribuita a questo evangelista inizia con un accenno a Giovanni Battista, «la voce di uno che grida nel deserto» (come un leone).

Ma c’è da considerare anche che, all’epoca dei bestiari, si pensava che i cuccioli di leone nascessero morti, finché il terzo giorno il padre leccandoli non dava loro la vita soffiando sul muso (figura evidente della resurrezione di Gesù).

Tra i simboli degli evengelisti c’è poi il bue (o un toro anche un vitello), animale sacrificale e immagine dunque del sacrificio di Cristo (compiutosi con la passione). È tra gli attributi di San Luca.  

Infine l’aquila, simbolo di San Giovanni e del suo Vangelo, secondo alcuni perché la sua visione di Dio è la più diretta.

Ma i vangeli non sono quattro? Certo. San Matteo però ha per simbolo un uomo (che, rappresentato spesso con ali, ha finito per evolvere in un angelo). Il motivo può essere che la “buona novella” a lui attribuita inizia con la genealogia di Cristo.

UNA SCENA DAI TRATTI “FRANCESCANI” CI PRESENTA UN INEDITO SAN BIAGIO ATTORNIATO DALLE CREATURE CHE, SECONDO LA LEGGENDA, LO RAGGIUNGEVANO IN UNA GROTTA

Se ci pensate, questi quattro esseri viventi (noti anche come tetramorfo, dal nome della visione raccontata nel libro di Ezechiele dell’Antico Testamento e nell’Apocalisse di Giovanni) sono emblemi  dell’incarnazione (uomo), passione (toro), resurrezione (leone) e ascensione (aquila) di Cristo.

Chi ha dipinto tutto questo? A Ranverso ha operato uno dei più raffinati maestri del ‘400 piemontese, Giacomo Jaquerio (lasciando anche una sua rara firma).

A Jaquerio e alla sua bottega si devono le storie di Sant’Antonio (compreso un sorprendente corteo di animali e umili contadini carichi di carni, recate forse in offerta) e le toccanti scene della Passione di Cristio in sagrestia.

Ma a proposito di animali, non possiamo non parlare di San Biagio, vescovo di Sebaste in Armenia, III-IV sec.

Un ciclo di storie nella navata destra, attribuito sempre a Jacquerio e collaboratori, ci racconta la leggenda secondo cui, durante le persecuzioni dei cristiani all’epoca dell’imperatore Licinio, questo Santo fu costretto a rifugiarsi in una grotta.

Uccelli e altri animali gli portavano cibo e aspettavano la sua benedizione, come vediamo in una lunetta. Una storia che non poteva non essere dipinta nella nostra “precettoria degli animali”.  

Lorenzo Crola

[ Atti della serata “Sulle orme di animali dipinti” 1 – continua]

6 pensieri riguardo “La precettoria degli animali

  1. Michel Pastoureau, storico e divulgatore, ha scritto degli interessanti saggi a proposito (Bestiari del Medioevo, Animali Celebri, ecc. ma anche monografie su animali specifici, come il maiale e il lupo) e dovrebbe essere uno di quei libri con cui entrare in queste chiese.
    Per altro trovo sempre incredibile cosa si possa trovare in luoghi così lontani dagli attuali centri culturali. E sottolineo il termine “attuali” perché sono una testimonianza di una società parcellizzata in numerosi centri minori capaci di una piccola vita culturale (ed economica, ovviamente) che oggi sembra appannaggio delle sole grandi città.

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    1. Lo trovo sempre incredibile anch’io, pur imbattendomi spesso in questi gioielli nasconti nei centri minori. Ogni volta provo una piacevole sensazione di stupore nell’immergermi nel loro fascino così fuori dal tempo.
      Grazie per la dritta di Pastoureau, sarà una delle prossime direzioni di approfondimento

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